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Parte 5 - Due modelli di interpretazione

Sono stati proposti due modelli per concettualizzare l’aggressività: il modello del deficit socio-cognitivo e il modello dell’abile manipolatore sociale.

Distinguere correttamente tra un reale problema ascrivibile al bullismo e problemi comportamentali di altra natura, come precedentemente già accennato, è condizione imprescindibile per poter prevenire o intervenire in modo appropriato ed efficace. La letteratura propone questi due modelli riguardo alla struttura e al significato del comportamento prepotente. Kenneth A. Dodge negli anni Ottanta a seguito di una serie di studi sui ragazzi aggressivi americani ha proposto il modello noto con il nome di Social Skills Deficit Model (modello del deficit sociocognitivo), giungendo alla conclusione che questi ragazzi abbiano difficoltà specifiche nell'elaborazione delle informazioni sociali. Questo modello considera l’elaborazione dell’informazione sociale come un processo sequenziale a 6 stadi, di cui i primi due sono caratterizzati da “bias attribuzionali”:

  1. Codifica dello stimolo sociale

  2. Interpretazione dello stimolo

  3. Scelta degli obiettivi

  4. Creazione di strategie di risposta

  5. Scelta della risposta

  6. Esecuzione della risposta

Dodge sostiene che gli individui aggressivi presentino, a differenza di quelli più pacati, un deficit nella qualità della codifica nei primi due stadi del processo, portando i soggetti ad un’interpretazione maggiormente ostile di eventi ambigui, nei quali non è facile distinguere se la causa è intenzionale o accidentale, in particolar modo quando lo stimolo equivoco è rivolto direttamente al soggetto (Gini, 2005). Le ricerche successive che hanno applicato il modello del deficit al fenomeno del bullismo hanno rilevato nei bulli competenze deficitarie nel mettere in atto strategie di risposta socialmente adeguate.


Una seconda interpretazione è stata espressa da Sutton, Smith e Swetternham nel 1999 , e sviluppata da ulteriori ricerche: contrariamente al modello del deficit restituisce l’immagine dei bulli come abili manipolatori socialmente competenti. Considerando la natura sociale entro cui si manifesta il fenomeno e la presenza fondante del ruolo degli spettatori, essi concludono che il bullo possegga una sofisticata abilità di manipolazione psicologica e acute capacità socio-cognitive, specialmente per quanto riguarda l’aver sviluppato una buona teoria della mente, che richiede di comprendere gli stati mentali e le emozioni espresse dagli altri. Secondo questi studi i bulli mostrano abilità intellettive riuscendo a percepire accuratamente il mondo sociale che li circonda, ma si servirebbero di queste risorse per conseguire benefici personali e mantenerli nel tempo, manipolando machiavellicamente pensieri e credenze non preoccupandosi dei danni collaterali causati ai compagni.


Certo è che, come scrive Gini (2005), riferendosi ad Arsenio e Lemerise


«Utilizzare la presenza di comportamenti sociali incompetenti come criterio per verificare l’incompetenza degli individui in termini di cognizione sociale (cioè la presenza di deficit e bias nella loro cognizione sociale) è problematico e, a tutti gli effetti, tautologico»

(Gini, 2005, p.41).



Gli autori indicano come uno dei punti chiave per comprendere il disaccordo tra i due modelli una mancanza di corrispondenza in letteratura circa la definizione del concetto di “competenza sociale”. Sutton e colleghi definiscono la competenza sociale come la capacità dell’individuo di raggiungere scopi personali in uno specifico contesto sociale. Crick e Dodge includono nella definizione del costrutto altri aspetti come il giudizio di adulti e coetanei, dando più ampio respiro alla formulazione del concetto considerando anche la percezione che gli altri hanno del comportamento, in quest’ottica un comportamento ostile, nonostante permetta un efficace raggiungimento dei propri obiettivi, non può esser definito competente. La difficoltà di fondo si riferisce alla divergenza sullo svincolare o meno la competenza sociale dai valori del gruppo di appartenenza. Scelta che diventa logicamente sostanziale quando si vogliono analizzare comportamenti socialmente indesiderati o devianti, quali il bullismo. Bjorkqvist et al. (2000) hanno trovato correlazioni positive tra intelligenza sociale e tutte le forme di comportamento aggressivo, principalmente con le forme indirette. Uno sviluppo sufficiente dell’intelligenza sociale permette al soggetto di danneggiare psicologicamente la vittima attraverso la manipolazione sociale con la possibilità di non venir scoperto e punito. In questa ricerca è emersa una ancora più alta correlazione tra l’intelligenza sociale e la capacità di sviluppare strategie assertive per la risoluzione dei conflitti. Se si valuta la competenza sociale come strumento neutro, fruibile sia con intenzioni pro-sociali sia antisociali, come sottolinea Gini (2005), la ricerca dovrebbe analizzare gli usi a cui è destinata a partire dalla fondamentale distinzione tra aggressività reattiva ed aggressività pro-attiva. L’aggressività reattiva è una forma difensiva di collera in risposta ad una situazione frustrante o ad una provocazione. Il bambino caratterizzato da aggressività reattiva tende a sovrastimare l’ostilità percepita nei suoi confronti, commettendo errori attribuzionali nel processo di elaborazione delle informazioni sociali, risultando inaccurato negli aspetti critici della comprensione di situazioni ambigue e reagendo in relazione alla loro percezione negativa delle intenzioni altrui. I bambini aggressivi di tipo reattivo tendenzialmente vengono rifiutati o allontanati dai coetanei. L’aggressività pro-attiva si distingue a sua volta in bullismo e in aggressività strumentale, a seconda che sia tesa ad un fine sociale o al raggiungimento di benefici materiali, e concerne comportamenti aggressivi deliberati e giustificati da rinforzi esterni. I bambini aggressivi di tipo pro-attivo, all'opposto, mostrano un maggior senso di auto-efficacia circa l’uso dell’aggressività, che ritengono semplice da mettere in pratica ed efficace, e spesso vengono riconosciuti come leader all'interno del gruppo (Gini, 2005).




Bibliografia


  • Sutton, J. Smith, P. K. e Swettenham, J. (1999). Bullying and “theory of mind”: a critique of the “social skills deficit” view of anti-social behaviour. Social Development, 8(1), 117-134. 7

  • Sutton, J., Smith, P. K. e Swettenham, J. (1999). Social cognition and bullying: social inadeguacy or skilled manipulation?. British Journal of Development Psychology. 17(3), 435-450.

  • Arsenio, W. F. e Lemerise, E. A. (2001). Varieties of childhood bullying: values, emotion processes and social competence. Social Development. 10, 59- 73 9

  • Bjorkqvist, K., Osterman, K. e Kaukiainen, A. (2000). Social intelligence – empathy = aggression?. Aggression and Violent Behaviour. 5(2), 191-200.

  • Gini, G. (2005). Il Bullismo. Le regole della prepotenza tra caratteristiche individuali e potere nel gruppo. Edizioni Carlo Amore, Roma.

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