Parte 6 - Il ruolo del GRUPPO
- Francesca Piana
- 20 gen 2021
- Tempo di lettura: 5 min
Il bullismo spesso, e per comodità, viene ritenuto colpa di un soggetto problematico, ma è e deve essere considerato un fenomeno di gruppo, molti sono gli autori che hanno posto l’accento sulla non trascurabilità della presenza di coetanei nel rinforzo reciproco dei comportamenti. D’altro canto, un’azione acquista significato soltanto se viene riconosciuta e sostenuta da chi ci circonda.
La condizione di bullo o di vittima è definita da diversi elementi sia personologici sia contestuali. Per poter comprendere appieno il fenomeno è imprescindibile un’analisi delle dinamiche, delle caratteristiche del gruppo entro cui si manifesta e delle caratteristiche personologiche di chi è coinvolto più o meno direttamente (Gini, 2011).
Come accennato nella prima parte di questo argomento, sono estremamente rilevanti le
credenze circa il valore e il significato dell’attuazione del comportamento o dell’atteggiamento aggressivo. Determinante, quindi, risulta il significato sociale relativo all’elevazione del proprio status agli occhi dei pari, condizionati dalle norme sociali del gruppo di appartenenza. Numerosi sono gli studi osservativi che hanno posto in evidenza anche il ruolo dei compagni indirettamente implicati nelle dinamiche bullo-vittima nel modellare e sostenere il comportamento dei membri del gruppo. Alla base della formazione di un gruppo naturale vi il concetto di omofilia, che si traduce in un processo di selezione per il quale gli individui cercano e scelgono i propri amici in base al livello di compatibilità con le loro caratteristiche personali e comportamentali. Proseguendo nella letteratura, il
modello classico della Teoria del confronto sociale di Festinger del 1954 traccia come fondamentale il bisogno umano di confrontarsi con gli altri per acquisire un metro di giudizio tramite il quale valutare le proprie opinioni, le proprie abilità, la propria condotta; la spinta motivazionale al confronto può portare a fenomeni di distorsione, come la cristallizzazione di
pregiudizi e stereotipi, volti a favorire quei gruppi in cui la persona è inserita e nei quali si identifica (gruppo interno: in–group) e a contrastare quelli a cui non appartiene (gruppo esterno: out-group) (Gini, 2012). Non sempre, infatti, i confini del gruppo e quelli della classe coincidono, frequentemente si parla di classi divise. I “gruppetti” costituiscono un problema ben noto a insegnanti e studenti, difficile da sradicare, e del resto è del tutto naturale che, in un insieme casuale di persone, si formino relazioni “speciali” solo tra alcuni dei membri dell’insieme. La psicologia sociale, come accennato, insegna che ognuno di noi si confronta con il nuovo cercando di categorizzare l’esistente sulla base delle esperienze e conoscenze pregresse, a livello socio-relazionale può capitare, più spesso di quanto non si creda, di distinguere dicotomicamente chi ci circonda in noi e loro, tra ingroup e outgroup. Ciò in cui ci si riconosce e ci si identifica, viene più facilmente compreso, manipolato e metabolizzato come ingroup, quello che eccede rispetto al limite esce dal “noi” e diventa “loro”, cioè
appunto outgroup. Questo meccanismo è fortemente connesso con il tema del bullismo che è, sovente, una forma di condanna sociale nei confronti delle differenze. Le convinzioni normalmente riscontrate in qualunque situazione in cui sia possibile riconoscere un “noi” e un “loro” sono:
• i membri dell’outgroup vengono percepiti come estremamente diversi da noi, per questo è difficile, a volte anche solo immaginare, qualunque forma di dialogo tra noi e loro. Ciò che rende loro così diversi da noi è uno scarto esclusivamente negativo che deve essere ridotto o espulso in quanto vissuto come minaccioso per l’unità del gruppo. Loro sono, o meglio,
rappresentano tutto quello che noi non siamo e non vorremmo mai diventare;
• noi dell’ingroup riscontriamo alcune caratteristiche in comune come essenziali che consentono da una parte la coesione del gruppo e dall’altra la sensibilità di cogliere le diverse caratteristiche di ciascun membro. All'opposto loro (outgroup) diventano indistinguibili, una massa omogenea. Il risultato qui è la spersonalizzazione dell’altro e la costruzione di un ulteriore ostacolo al dialogo, perché l’altro non viene più riconosciuto come alter, ma diventa alienus.
In qualunque confronto tra noi e loro, chiunque tende a favorire il proprio sottogruppo, anche in situazioni prive di competitività dove non dovrebbe risultare necessario. In questo modo si costruiscono barriere tra le persone, anche all’interno di uno stesso gruppo e l’altro diventa il nemico. Dotato di un avversario, un gruppo o un sottogruppo tende a rinsaldarsi, ad aumentare la propria coesione interna e l’identificazione di ciascun membro con l’identità
collettiva che partecipa a costruire. Scagliarsi contro qualcuno o qualcosa rafforza il senso di appartenenza al gruppo, rende più stabili i confini con l’esterno – un più marcato limite tra “noi” e “loro”-, riduce il dissenso e il conflitto all’interno del gruppo, perché si ritiene che il conflitto più prioritario da risolvere si svolga sul confine, tra “noi” e il nemico e che questo faccia passare in second’ordine qualunque dissenso interno, aumentando la tolleranza verso i propri compagni, che si propende a giustificare in quanto parte di noi. All’interno di una “classe divisa” si ripropone il gioco di specchi tra noi e loro, per certi versi funzionale a rafforzare l’identità dei singoli e dei sottogruppi implicati. A seconda dei casi, l’outgroup può essere rappresentato da un sottogruppo o simbolizzato da un solo individuo,
massimamente esposto, tormentato e escluso, che finisce per incarnare il ruolo del capro espiatorio (Buccoliero, 2008).
A partire dalla celebre ricerca sperimentale sull’aggressività condotta nel 1961 dallo psicologo Albert Bandura (“Bobo doll experiments”), molti esperimenti successivi hanno dimostrato che il comportamento aggressivo può essere modellato, in altre parole appreso per imitazione. Il concetto di “contagio sociale” indica come ragazzi e adulti amplifichino l’aggressività della loro condotta a seguito dell’osservazione di un “modello” che ha agito
aggressivamente. Dagli studi di Olweus emerge come l’intensità dell’effetto sia tanto più ragguardevole nella misura in cui l’osservatore valuti positivamente il modello in termini sociali, considerandolo, ad esempio, audace, coraggioso e forte. Ricompensando positivamente il modello aggressivo manifestato si verifica, dunque, un’inibizione della propria aggressività; inversamente, se colui che funge da modello viene punito si
riscontra un rafforzamento delle inibizioni. Il meccanismo dato dall’affievolirsi del controllo e dell’inibizione nei confronti delle tendenze aggressive produce scarse conseguenze negative da parte dei genitori, degli insegnanti e dei pari. Come dimostrato dalle ricerche della psicologia sociale sulla diffusione, o diluizione, di responsabilità, questo meccanismo influisce anche sugli osservatori neutrali, che a seguito dei continui attacchi e/o commenti dispregiativi gradualmente iniziano a percepire la vittima come incapace e quindi meritevole di abusi e molestie.

Bibliografia:
• Buccoliero, E. (2008). Bullismo, bullismi. Atti del ciclo di incontri di sensibilizzazione, Comune di Ferrara
• Borgna E. (1999) Noi siamo un colloquio. Gli orizzonti della conoscenza e della cura in psichiatria (1999)
• Gini, G. (2012). Psicologia dello sviluppo sociale. Editori Laterza, Roma-Bari
• Gini, G. (2005). Il Bullismo. Le regole della prepotenza tra caratteristiche individuali e potere nel gruppo. Edizioni Carlo Amore, Roma
• Gini, G.; Pozzoli, T. (2011). Gli interventi anti-bullismo. Carocci, Roma
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